Intorno al palcoscenico
FERRARI Franco, Intorno al palcoscenico. Storie e cronache dell’organizzatore teatrale, FrancoAngeli, Milano, 2012.
Sommario
1. L’oggetto. Il rapporto fra organizzatore teatrale-musicale e artista nelle istituzioni. 2. Gli archetipi. L’impresario lirico e il capocomico di prosa fra Settecento e primo Novecento. 3. Un modello. La storia professionale di Paolo Grassi come inizio dell’organizzazione teatrale moderna in Italia. 4. Gli scritti. I principali saggi di organizzazione teatrale-musicale e di economia dello spettacolo degli ultimi decenni. Intermezzo. Un intervento di Lucio Argano. 5. Opinioni altrui. Interventi di: Antonio Calenda, Fioravante Cozzaglio, Fiorenzo Grassi, Marco Tutino, Walter Vergnano. 6. Conclusioni mie. Per un profilo dell’organizzatore-manager delle istituzioni teatrali e musicali.
Dall’introduzione
Fine della Storia. Fine della Politica. Fine dell’Economia. Fine della Cultura. Parallelamente a quelli fondamentalistici o paranormali, serpeggia un sentimento della fine “dotto”, di tipo sociologico. La Storia non può non sopravvivere, ma Politica-Economia-Cultura sono messe male. Non c’è da stupirsene. Le categorie del pensiero occidentale perdono le loro certezze identitarie, svuotate di nozioni e di regole, incapaci ormai -nella loro trasversalità- di mantenere una definizione all’interno del loro evolversi. Forse per la Cultura si assiste piuttosto ad una moltiplicazione delle definizioni. «Chiese, pale d’altare, liturgie, magnificenza delle funzioni religiose: i tempi antichi praticavano la cultura del culto. Musei, “installazioni”, mostre, fiere dell’arte: oggi ci si dedica al culto della cultura. Nello spazio di cinquant’anni siamo caduti nel “culturale”: affari culturali, prodotti culturali, gestori delle organizzazioni culturali, direttori dello sviluppo culturale e, perché no?, “mediatori della nuova cultura”, “intermediari della creazione” e anche “direttori del marketing culturale”… Tutta un’organizzazione complessa della vita dello spirito, o meglio delle spoglie dell’antica cultura. Nella vita quotidiana, per essere in tono con questa inflazione culturale, ci si metterà a salmodiare sulla parola “cultura”: “cultura d’impresa”, “cultura del management” (negli affari), “cultura dello scontro” (in uno sciopero), “cultura dell’insicurezza” (il partito socialista[1]), “cultura delle relazioni sociali” (in una fabbrica), “cultura del pallone” (nel calcio)… Invocata ad ogni piè sospinto, la parola è diventata ormai il jingle dei particolarismi, delle idiosincrasie, del reflusso gastrico, un rutto di tic collettivi, una formula magica dei gruppi, delle coorti o delle bande che ne hanno perso l’uso. Se prima aspirava all’universale, la cultura non è ormai che l’espressione di riflessi condizionati, di soddisfazioni zoologiche»[2]. «Cultura è una specie di “protoconcetto”, piuttosto povero e impreciso, che va scomposto in una serie di ambiti. [Bisogna proporre] i processi di impoverimento culturale come tema di riflessione per gli antropologi che ancora intendono utilizzare il concetto di cultura, e [individuare] nel capitalismo il fattore “anti-culturale” oggi più potente e pervasivo: mercificando il mondo, le società, le relazioni, è il capitalismo che “parla” e soprattutto agisce contro la cultura. Si può affermare che la differenza essenziale fra la concezione classica e quella moderna è data dall’assenza o dalla presenza dei costumi come contenuti specifici della cultura. Se la cultura in senso classico era costituita da ideali, verità e valori non condizionati dai mores, e se la sua acquisizione coincideva con una liberazione dagli abiti e dalle consuetudini locali, la cultura in senso moderno è invece costituita dai costumi, e un’analisi in termini culturali comporta il riconoscimento della loro importanza e della loro incidenza in una molteplicità di ambiti del comportamento umano. Alla base di questi atteggiamenti vi è la percezione della pluralità irriducibile delle “forme di vita” che l’umanità può assumere, e quindi l’improponibilità della “cultura” in senso classico -la cultura della comunità dei dotti- come modello esclusivo e, nello stesso tempo, universale di umanità»[3]. Tra poco, anche gli ultimi saperi toccabili si smaterializzeranno nell’iperuranio del cloud computing. La “nuvola” sarà una dittatura bianca. Potremo connetterci a tutto e non detenere più niente; non potremo nemmeno “salvare” un piccolo file di peluche da nascondere sotto il cuscino. Gli ultimi intellettuali individualisti si lasceranno morire per strada abbracciati a vecchi portatili, e saranno raccolti da robot-monatti!!!
Dalle conclusioni
La parola “organizzazione” ha tuttora, in Italia, un significato generico e debole sia nel linguaggio quotidiano che nei gerghi specialistici. Nello Spettacolo dal vivo i non addetti ai lavori confondono l’organizzatore o con il produttore, ovvero l’impresario, o con l’animatore, ovvero il factotum della situazione. In teatro la responsabilità organizzativa continua ad essere una qualifica non chiara per molti interlocutori, anche istituzionali (a differenza di quella amministrativa, di quella scenotecnica, di quella comunicazionale, etc), perché la sua peculiarità è di abbracciare più campi operativi, tendenzialmente tutti i campi operativi presenti in una iniziativa o in un ente. L’Italia è piena di assessori, di presidenti, di funzionari, che si sentono perfettamente in grado di organizzare spettacoli a qualsiasi livello, che pensano di essere dei “manager”. Insomma, ai terzi la capacità organizzativa sembra più una attitudine che una vera professionalità conquistata sul campo. A complicare le cose è intervenuto un superficiale abuso del termine “management” come alternativa virtuosa: l’organizzazione è roba che sanno fare tutti, il management garantisce la vera competenza! Se qualcuno viene definito manager, vuol dire automaticamente che è un “dirigente di successo”. E non sembra sia un difetto solo dell’esterofilia all’italiana; Malik dice che curiosamente si è diffusa nel mondo una immagine del top-manager come incrocio fra un guerriero antico, un premio Nobel e un intrattenitore televisivo! Chiunque può tranquillamente riferirsi agli “organizzatori della sagra della polenta concia”, ma nessuno oserebbe dire: “il management della sagra della polenta concia”. Anche le istituzioni teatrali, con il progredire dei problemi e degli atteggiamenti economicistici, sono toccati da questo opinionismo perverso.
Credo sia utile qualche approfondimento.
Ogni istituzione teatrale strutturata è una “azienda” (abbiamo visto che una compagnia può essere meglio denominata come “impresa”). Azienda è un termine tecnico del tutto congruo, che non sottovaluta e tantomeno mistifica la natura artistico-culturale che qui ci interessa, ma è insostituibile quando si parla di gestione; assumiamolo una volta per tutte. Ogni azienda ha bisogno, per funzionare e per raggiungere i suoi obiettivi, di mettere in atto un assetto organizzativo, che è l’elemento fondante dell’azienda unitamente al patrimonio, al personale e alla dotazione tecnologica, ed è fortemente influenzato dall’assetto “istituzionale” comprendente la proprietà e gli stakeholders. Questo disegno è la base per l’uso del termine “organizzazione” come (quasi) sinonimo di “ente”, ma mi sembra un uso sofisticato e forse fuorviante. Resta il fatto che l’accezione più appropriata è quella riferita all’operatività. Nel primo caso la parola vuole coincidere con l’ente, nel secondo denota il modo in cui un singolo ente è organizzato. Organizzare significa costruire e modificare l’assetto di ciascuna azienda, penetrarne la “cultura” (cioè l’insieme degli assunti e dei valori condivisi dai suoi membri), cercare di massimizzarne l’equilibrio fra efficienza ed efficacia [Rebora, 2001].
Non è facile, se non si è esperti di sociologia e di analisi economica, tracciare una pur sommaria storia della “organizzazione”, che comunque tutti fanno risalire alle teorie-pratiche di “organizzazione scientifica del lavoro” dell’ingegner Taylor, e alla loro icona industriale: il cosiddetto fordismo. Già con la rivoluzione industriale l’organizzazione appare come lo strumento essenziale per combinare le diverse risorse, soprattutto al fine di generare ricchezza. Ma è la contemporaneità a sentire l’esigenza della “teoria”, sia come prescrizione di modelli ritenuti ottimali, sia come interpretazione delle dinamiche interne alle organizzazioni. A partire dal secondo dopoguerra sono fiorite numerose scuole di pensiero organizzativo, che si possono riassumere in alcuni macrofiloni [Gambel, 1998]. La scuola “classica” imponeva alle persone di adeguarsi ai ruoli stabiliti dalla struttura organizzativa. In rapporto al boom economico degli anni ‘50/’70 si incomincia a considerare il lavoratore come la risorsa fondamentale (scuola “delle risorse umane”), si cerca di rapportare la struttura all’uomo, cioè alle sue caratteristiche e aspirazioni. Il grande Abraham H. Maslow pone in cima alla gerarchia dei bisogni dell’essere umano l’autorealizzazione; dice che ogni persona è degna di fiducia, che a tutti piace ricevere meritati complimenti in pubblico, che una economia umanistica deve presupporre che tutti i membri di una organizzazione siano solidali [Maslow, 2004]. Le risorse umane sono difficili da gestire ma presentano le più elevate potenzialità di miglioramento. È il momento del welfare. L’organizzazione non è più concentrata esclusivamente sul business, si applica anche alle attività terziarie (ospedali, università, servizi), diventa una funzione sociale. Le aziende non profit hanno un bisogno di management identico a quello delle profit, tuttavia per loro le considerazioni economiche sono un limite; esse esistono per il bene della comunità, hanno un’attività settoriale ma devono contribuire alla crescita “culturale” complessiva, l’attenzione al loro cliente interno (a maggior ragione nel comparto cultura) è centrale come quella all’esterno. Qui matura anche il marketing, da tecnica di pubblicità e di vendita a strumento indispensabile alla strategia aziendale.
Con la crisi economica (affacciatasi negli Ottanta e via via peggiorata fino allo stato comatoso di oggi) la scuola “del sistema sociale” insegna che l’azienda deve far fronte ai cambiamenti imposti dalle esigenze esterne tenendo in una continua relazione di interdipendenza il fattore uomo e il fattore struttura. Si passa dall’enfasi sulla produzione al primato della qualità e della innovazione tecnologica. Il cambiamento introduce la velocità come valore; la qualità pone il cliente al centro del business; i progressi tecnologici costruiscono i mezzi per l’odierna globalizzazione dei mercati. Le conseguenze sono dure: senza cliente non c’è mercato, senza mercato non esiste posto di lavoro. I fattori interni dell’azienda sono la proprietà e la gestione, gli esterni sono i clienti, i fornitori, le istituzioni, gli eventuali finanziatori, etc: il mercato. Progredisce la supremazia della finanza. Emerge definitivamente il grande ruolo del management come autorità alla quale la proprietà affida la conduzione dell’azienda. La proprietà privata si fida (fino a prova contraria, è ovvio) dei suoi manager molto di più di quanto la titolarità pubblica (la politica) si fidi dei suoi tecnici.
Dover gestire implica poter dirigere. Chi dirige un’organizzazione è un manager. Nessuno può essere davvero efficace se non lavora in un’organizzazione (o in una sezione di essa) diretta da un management. Non sapere come gestire è la principale ragione per cui un’azienda fallisce. Se vogliamo costringerlo ad essere sinonimo di organizzazione, anche il management può avere un’età plurisecolare (è impensabile che i costruttori delle piramidi non avessero un loro metodo per organizzare il lavoro); ma la sua vera storia parte dalla concezione contemporanea delle risorse umane. L’eterno compito del manager è fare in modo che le persone realizzino una performance comune attraverso valori e obiettivi comuni, all’interno di una struttura appropriata, disponibile all’innovazione, capace di sviluppare la professionalità di ciascuno. La formazione didattica è centrale ma il learning by doing non sarà mai sostituibile, soprattutto se il management è consapevole dell’utilità di applicare alle esperienze aziendali quotidiane un secondo fine formativo (anche il manager diventa manager soprattutto in questo modo; soltanto l’Esercito e la Chiesa “formano” in senso stretto i loro dirigenti). Ogni azienda deve costantemente apprendere e insegnare. Il management riguarda le persone, deve rendere le loro virtù una risorsa per l’azienda e i loro difetti un aspetto irrilevante. Questo ne fa una disciplina umanistica, molto attenta alle questioni etiche, soprattutto di responsabilità sociale, in cui oggi il lavoratore è indirettamente coinvolto [Drucker, 2002]. L’etica è un imperativo apparso di recente nel linguaggio manageriale, a causa degli scandali finanziari. Purtroppo le regole, i compiti e gli strumenti sono insegnabili; il senso di responsabilità, che è alla base dell’etica, non lo è. Se vuole pretendere trasparenza e correttezza dai collaboratori, il manager deve innanzitutto praticarle in prima persona, deve avere un innato senso del dovere e deve dimostrarlo ai suoi. Purtroppo il mostro della “crisi” sta mettendo in discussione l’accento sulla dimensione umana, sulla soggettività del lavoro, che aveva sancito la trasformazione della catena gerarchica in team di lavoro, della mansione in ruolo, delle procedure in processi, del compito in risultato, del comando in coinvolgimento, della continuità in allenamento alla discontinuità, delle certezze in accettazione consapevole del dubbio [Marchesini, 2003]. Oggi il rapporto fra azienda e risorse umane è sempre più di forza; il lavoratore è vissuto come una voce di bilancio incompatibile con il rigore amministrativo; le aziende cambiano continuamente strategie e politiche, e il direttore del personale è un manager che deve supportare queste esigenze aziendali.
Dunque: l’organizzazione è la combinazione delle risorse umane, tecniche e finanziarie con il loro coordinamento ottimale per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’azienda in una logica di pianificazione. L’organizzazione deve creare un equilibrio armonico di funzioni, di cui è responsabile la direzione. Per stabilire l’insieme delle funzioni, cioè la struttura, la direzione crea gruppi di persone all’interno dell’azienda, che si devono integrare in una rete di rapporti di dipendenza e di collaborazione. Nel concetto di organizzazione è implicita la direzione, visualizzata nella sua funzione-guida al vertice dell’organigramma. Nel concetto di struttura organizzativa sono quindi impliciti l’utilizzo della gerarchia e la suddivisione dei compiti, due aspetti che si sono evoluti e modificati ma che rimangono, nelle loro declinazioni attuali, il punto di partenza di qualsiasi organizzazione semplice o complessa. Dirigere significa predisporre e coordinare la programmazione, l’attuazione e il controllo delle attività aziendali, nel rispetto delle risorse finanziarie e tecniche e allo scopo di raggiungere i risultati stabiliti (o gli scopi statutari, o le finalità predichiarate). Dirigere significa individuare chiaramente: 1° – il livello top, composto da individui o organi (un padrone, dei soci, un’assemblea di fondatori, un CdA, etc: quello che più sopra è stato chiamato assetto “istituzionale”), da cui il direttore deve ricevere deliberazioni e indirizzi per lo svolgimento del suo ruolo; 2° – un indispensabile, qualificante livello middle, in cui il direttore deve valorizzare dirigenti e/o quadri ai quali poter delegare con fiducia, perché anche i funzionari intermedi sono a tutti gli effetti dei manager (chi adempie di fatto a compiti gestionali è un manager); 3° – un livello low caratterizzato dagli operativi, con cui il direttore non deve mancare di esercitare un contatto/controllo periodico.
Il management in senso generale è simile in tutto il mondo; è l’arte del buon funzionamento aziendale; è la trasformazione dei saperi in risultati [Malik, 2007], ma non è una scienza. Non è nemmeno una professione in senso stretto; è l’esaltazione di una componente riscontrabile in ogni professionalità. La componente manageriale di ogni professione permette alle persone di essere efficaci. Il manager è separato dai compiti specialistici e dai compiti attuativi. Non la sa più lunga di tutti, ma è colui che sa tirar fuori il meglio dagli altri. Usa criticamente la strumentazione, per esempio si vaccina contro la frenesia e l’omologazione da Internet. È in perenne tensione, non si sente mai libero di dimenticare il lavoro. Deve strutturare l’azienda per guidarla alla creazione di valore. Ha il diritto di adottare un modus operandi personale, di decidere lo stile di leadership che influenza tutta la struttura, ma deve sempre guardare a “come” lascerà l’azienda alla fine del proprio mandato (il change management che certo praticherà il suo successore, non deve essere un trauma). Detiene la visione complessiva; stabilisce gli obiettivi che danno al quotidiano in azienda una direzione e un senso. Mette “nero su bianco” le decisioni e le istruzioni, se ne responsabilizza sempre (vedete che Paolo Grassi è davvero un modello!). Il manager deve accettare compromessi giusti in numero decisamente maggiore rispetto ai compromessi sbagliati. Il management deriva dall’esperienza; a tal fine è importante aver lavorato in varie aziende, ma è altrettanto vero che il manager deve radicarsi in un luogo di lavoro per capire i propri errori e correggerli. Le aziende hanno non solo finalità ma anche connotazioni diverse l’una dall’altra.
Il modo più diffuso in cui il manager può organizzare una azienda mediamente complessa è la cosiddetta struttura funzionale, che prevede il raggruppamento delle attività secondo una logica di “specchio” delle funzioni lavorative, cioè della natura del lavoro effettuato dalle persone [Hatch, 2009]. Questo schema favorisce un ruolo forte del top-manager ma consente altresì di ben identificare e valorizzare il middle management. La struttura cosiddetta a matrice può rivelarsi adatta ai soggetti del comparto cultura perché è naturalmente rivolta all’implementazione delle tecniche di project management. Certo, lavorare contemporaneamente su singoli progetti separati, può comportare difficoltà. Personalmente ritengo che le istituzioni teatrali (che normalmente sono monoscopo) possano integrare efficacemente gli standard di funzione con le esigenze di progetto, soprattutto facendo andare “insieme” gli elementi interni (gli uffici) con quelli esterni (gli artisti).
Il management è esperienza, capacità di conciliare produttivamente la tradizione con l’innovazione, attitudine a porre e a porsi domande costruttive. Per esempio, quando ascoltiamo una conferenza sul change management, dobbiamo chiederci [Mintzberg, 2010]: se davvero viviamo in tempi di grande cambiamento, come si spiega che usiamo ancora i bottoni?
Infine. I termini “management” e “manager” sono vissuti come indicatori di una presunta casta di professionisti eccellenti, tendenzialmente internazionali e trasversali ai vari comparti industriali-commerciali; tecnici capaci di (risolvere) tutto. Un po’ -se vogliamo- come l’uso di “leader” rimanda subito ad un livello ben superiore e ad un significato nettamente più ampio dell’uso di “capo”. Anche leader è parola abusata; la leadership non si riceve, si merita; e non deve essere mai esaltata perché così si demotivano i collaboratori, li si fa sentire dei gregari. Ma il ricorso a questi inglesismi pare faccia il miracolo di trasformare un discorsino banale in una relazione specialistica. Urge smitizzare il termine “manager”, usarlo spesso ma appropriatamente, sapendo che indica più una skill che una qualifica di per sé, si riferisce a persona che gestisce e magari amministra il budget di un nucleo mansionale dell’azienda, anche a livelli medi e persino bassi. Chi si cura della illuminotecnica di palcoscenico è un manager, a maggior ragione chi ha la responsabilità della sicurezza, chi segue il magazzino, etc. Se si vuole identificare un ruolo alto, si aggiungono altri termini: top-manager, managing director, management consultant. Diciamo che si può acquisire “to manage” come fratello di “organizzare” perché entrambi rimandano ad un sodalizio fra pensiero e prassi: manovrare, destreggiarsi, coordinare, “farcela”. Credo non succeda nulla di grave se nel nostro linguaggio usiamo indifferentemente “management” e “organizzazione”. È evidente che nella saggistica internazionale, che si esprime in inglese, “organizzazione” è del tutto assente e “management” è di dominio universale. Tuttavia possiamo cogliere il bilinguismo come una opportunità per essere più precisi in casa nostra. Nel comparto teatrale penso valga la pena di accentuare il senso “socio-artistico” insito in organizzazione e quello “tecnico-gestionale” in management. Entrambi devono mantenere il focus sull’uomo e sulla correttezza. L’organizzazione culturale non può che essere un management umanistico ed etico.